La censura. C'è chi dice no!
E qualcosa non va, qualcosa manca, in chi vuol far tacere uno che canta. (Robert Frost)
Poiché sancisce cosa è lecito e cosa no, la censura rappresenta un vero e proprio strumento di potere. Potere che, rispetto al censito, esercita un’opposizione caratterizzata più spesso da intenti utilitaristici, se non ipocriti, e più raramente dalla volontà di tutelare il buon costume, la dignità e l’ordine pubblico.
La storia della censura, sia essa culturale, politica o religiosa, è segnata da repressioni, omicidi, torture e distruzione sistematica di opere, testi e volumi. Si pensi ai roghi di libri della Cina del 212 a.C., della Grecia antica, dell’impero romano, di Alessandria d’Egitto nel 642 e a quelli dei secoli che sono seguiti per arrivare alle cosiddette Bücherverbrennungen della Germania nazista nel 1933 o di Mosul nel 2015 a opera dell’IS. Se i roghi, a parte qualche rara eccezione, rappresentano uno strumento del passato, non si può certo affermare che oggi i controlli siano cessati. Certamente ora i metodi sono più sofisticati ma letteratura, architettura, cinematografia, musica, pittura, media e quant’altro restano oggetto di censura.
Se ci sembra lontano l’Indice dei libri proibiti redatto da Papa Paolo IV nel 1559 (sebbene tenuto aggiornato dalla Chiesa cattolica fino al 1966), appare piuttosto bizzarra la messa al bando da più di due decenni di “Harry Potter”, da parte di alcune istituzioni cattoliche americane, in quanto rimanderebbe al demonio e alla stregoneria. Singolare anche quella di “Alice nel paese delle meraviglie” da parte della Cina, nel 1931, perché porrebbe sullo stesso piano uomini e animali – spesso innegabilmente migliori i secondi dei primi. Un ultimo esempio tra i tanti della letteratura, i capolavori di George Orwell: “La fattoria degli animali”, che assimila (non a torto) l’autocrazia dei maiali alle vicende politiche della Russia stalinista, è censurato in periodi diversi in Unione Sovietica, Cina, Corea del Nord, Kenya, Cuba e Emirati Arabi, mentre “1984” è proibito in Unione Sovietica dal 1950 al 1990.
Tra le numerose opere d’arte censurate spicca “L’origine du monde”, dipinto nel 1866 da Gustave Courbet, postato da Vittorio Sgarbi su Facebook mentre è in visita al museo d’Orsai, dove è esposta l’opera. Non meno eclatanti l’oscuramento nel 2018, sempre da parte di Facebook, di un dipinto di Rubens e dell’immagine della “Venere di Willendorf” pubblicata dal Museo di Storia Naturale; per non parlare di quello, a maggio 2021, della pagina del Museo di Ravenna per la pubblicazione di un nudo di artistico di Paolo Roversi. Poiché sempre più spesso i social scambiano arte per pornografia, i Musei di Vienna sbarcano su OnlyFans, un sito di intrattenimento per adulti che, ovviamente, i nudi li mostra e non li oscura. Il controllo di Facebook non ricalca i principi del buon padre di famiglia, come si potrebbe ingenuamente pensare, ma è finalizzato a tutelare gli inserzionisti paganti, i quali non vogliono accanto ai loro banner contenuti politici controversi od offensivi (come se i nudi artistici lo fossero!). Facebook si avvale addirittura di una doppia censura: la sua e quella che scaturisce dalle segnalazioni degli utenti, in taluni casi dettate da pura antipatia nei confronti di un “amico. Perché certi post oggettivamente ingiuriosi non vengano eliminati è un mistero presto svelato: il social sostiene che siano talmente tanti da non poter essere controllati.
Tra i molti cartoni animati censurati troviamo “Lady Oscar”, con il taglio delle scene d’amore con il suo amato André e un ritocco al linguaggio dei personaggi, da parte della televisione italiana. Per la cinematografia ricordiamo “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci, censurato in Portogallo dal 1973 al 1974, in Spagna, in Corea del Sud, in Nuova Zelanda e a Singapore, in Italia condannato dalla Cassazione nel 1976 alla distruzione delle copie (poi riabilitato nel 1987), con la ciliegina sulla torta di una pena detentiva di due mesi (mai eseguita) inflitta al produttore, al regista, allo sceneggiatore e a Marlon Brando. Una pellicola così disdicevole e immeritevole di essere vista che, negli anni Settanta, vince il premio David di Donatello e il premio Nastri d’Argento, e riceve due nomination ai premi Oscar, due nomination ai premi Golden Globe e una nomination ai premi Bafta.
La censura è sempre uno strumento politico, non è certo uno strumento intellettuale. Strumento intellettuale è la critica, che presuppone la conoscenza di ciò che si giudica e combatte. Criticare non è distruggere, ma ricondurre un oggetto al giusto posto nel processo degli oggetti. Censurare è distruggere, o almeno opporsi al processo del reale. (Federico Fellini)
Anche la musica non è intoccata. Per fare un esempio tutto italiano, il brano “Dio è morto” dei Nomadi viene censurato negli anni Sessanta dalla Rai (ma non da Radio Vaticana) perché ritenuto blasfemo. Per ciò che concerne l’architettura, si pensi al movimento artistico Bauhaus, inserito dai nazisti nella lista delle forme d’arte degenerate. Riguardo i siti web e i social network, di tanto in tanto – in taluni paesi purtroppo molto spesso – vengono oscurati post, blog e articoli considerati “non in linea”.
E ora veniamo alla stampa, che ha i suoi grattacapi pressoché ovunque nel mondo. La storiella della libertà di espressione – sancita nel nostro paese dall’art. 21 della costituzione – ha la stessa valenza de “La legge è uguale per tutti” ovvero rappresenta un valore vicino allo zero. L’Italia si classifica al 41° posto per la libertà di informazione e se consideriamo che l’informazione è un elemento cruciale in una democrazia, qualche considerazione sarebbe bene farla.
La spada del censore penetra profondamente nel cuore della libertà di espressione. (Earl Warren)
Il covid-19 ha dato prova definitiva che la stampa di tutto il mondo è controllata. Da un sondaggio del IFJ (International Federation of journalists) si evince che vari giornalisti hanno subito restrizioni, vessazioni e attacchi censori in merito alle informazioni riguardo la pandemia. Cina, Bielorussia, Venezuela, Egitto, Ungheria, Russia, Azerbaijan, Filippine, Honduras, Singapore, Iraq, Yemen… non gradiscono che si diffondano informazioni allarmistiche sulla malattia. In Giordania il governo emana addirittura una serie di leggi inerenti a guerre, disastri ed epidemie, che conferiscono al primo ministro il controllo di ogni pubblicazione prima che venga divulgata. Di contro nel nostro paese Mario Monti (senatore a vita ed ex Presidente del Consiglio) dichiara: L’informazione sul covid sia meno democratica.
La pratica del giornalismo, il principale vaccino contro il virus della disinformazione, è gravemente ostacolata in 73 dei 180 Stati nella classifica stabilita da RSF e limitato in altri 59, vale a dire un totale del 73% dei Paesi valutati (cit. Reporters sans frontières). Come si evince dalla mappa che segue, i paesi colorati in rosso e in nero sono quelli in cui il giornalismo versa in condizioni molto gravi, mentre quelli in arancione vedono un giornalismo considerato “problematico”.
Anche se in Europa la situazione pare più rosea, in realtà la censura non è sconosciuta, tanto che ben nove associazioni giornalistiche, a marzo 2020, indirizzano una lettera a difesa della libertà di stampa alle istituzioni europee. A distanza di un anno e mezzo è cambiato qualcosa?
Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere. (Cit. Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, articolo 19)
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