Ota Benga, una storia di ordinaria follia nell'America del Novecento
Aggiornamento: 26 ott 2020
Trovo che più una creatura è indifesa, più ha il diritto ad essere protetta dall’uomo dalla crudeltà degli uomini. (Mahatma Gandhi)
Dopo quarant’anni dall’abolizione della schiavitù in America, un ragazzo innocente fu strappato all’Africa e venne rinchiuso in una gabbia dello zoo del Bronx di New York.
La storia di una umanità poco umana, che fece di un mite pigmeo un fenomeno da baraccone.
Fotografia di Ota Benga esposta al American Museum of Natural History
Pensiamo che la nostra razza sia sufficientemente depressa anche senza esibire uno di noi come una scimmia. Pensiamo di meritarci di essere considerati degli esseri umani, con delle anime. (Reverendo James H. Gordon)
Ota Benga nacque intorno al 1880 nel Congo Belga ovvero il paese che Re Leopoldo II del Belgio trasformò in un inferno. Leopoldo acquisì la sovranità dello Stato Libero del Congo nel 1885 con un subdolo escamotage e la mantenne fino al 1908 (dopodiché il paese divenne una colonia belga). Durante quei 23 anni, il sovrano decimò un terzo della popolazione locale e sottopose i sopravvissuti alle violenze più inaudite. Il Congo di quei tempi, ricco di avorio e di risorse minerarie, era una immensa fabbrica di caucciù, la resina destinata a rivoluzionare l’industria europea. E chi mai poteva raccogliere il caucciù e trasportarlo fino al mare, se non i neri? Il Re costrinse le tribù locali a ritmi di lavoro serrati, con mezzi oltremodo brutali – dalla presa in ostaggio delle donne, alla mutilazione delle mani – ma il più convincente fu senza dubbio la distruzione dei villaggi, in questo modo i superstiti, terrorizzati, avrebbero rispettato i quantitativi di caucciù richiesti dalle varie stazioni commerciali.
Iniziò così il calvario di Ota Benga, un giorno che rientrò dalla caccia e trovò il suo villaggio raso al suolo. Era il 1904. Catturato dalla Force Pubblique belga, fu venduto a un americano, un personaggio controverso a metà tra un missionario e un imprenditore, che intendeva organizzare una mostra antropologica negli Stati Uniti. Mostra che ebbe un grande successo e che vide il noto scienziato dell’epoca W. J. McGee etichettare Ota Benga - il negro con i “denti di pantera”, limati secondo la tradizione tribale, alto un metro e venticinque centimetri, di 46 chilogrammi di peso - come l’esempio del grado più basso dello sviluppo umano.
Fu così che l’America del Novecento spacciò il razzismo per dottrina scientifica. Ndr: nel contesto della mostra, furono esibiti anche alcuni nativi americani (tra questi, Geronimo, il capo Apache prigioniero di guerra).
Ota Benga ritornò in Congo insieme al “missionario” che lo aveva comprato e, insieme a lui, di nuovo negli Stati Uniti. Qui iniziò a lavorare (gratuitamente) per l’American Museum of Natural History di New York come intrattenitore per i visitatori ma dopo che diede segni di squilibrio manifestandosi violento – espressioni di disperata solitudine e alienazione – fu portato allo zoo del Bronx dove venne esposto in una gabbia insieme a un orango e a uno scimpanzé. Era il 1906.
Gli zoo umani – chiamati anche esposizioni etnologiche - erano esposizioni pubbliche tipiche del XIX e XX secolo che ebbero luogo in vari paesi d’Europa e in America, e che mirarono a sottolineare le differenze tra gli esseri umani evoluti, quelli di razza bianca, e quelli primitivi ovvero neri, eschimesi, indios, …
L’esposizione di Ota Benga – che ebbe un enorme successo attirando decine di migliaia di visitatori, i quali si divertirono a deriderlo, umiliarlo e molestarlo - si basò sull’interpretazione darwiniana (nel contesto di un’epoca imperiale) nei termini di “sopravvivenza del più adatto”, interpretazione in virtù della quale il pigmeo sarebbe stato l’anello di congiunzione tra l’uomo e la scimmia.
Fu inevitabile che la comunità afro-americana si indignasse e cominciasse a protestare. Il reverendo James H. Gordon di Brooklyn, che guidò la protesta, si rivolse al Sindaco della città il quale, non solo rifiutò di riceverlo ma si congratulò anche con il Direttore dello zoo.
Dopo tanto scalpitare, il reverendo riuscì ad ottenere la custodia del ragazzo, cercò di "americanizzarlo", gli fece incapsulare i denti, e nel 1910 lo inviò in Virginia, accolto presso una famiglia, dove frequentò una scuola.
Quando Ota Benga trovò lavoro in una fabbrica di tabacco, forte della sua nuova condizione indipendente, iniziò a progettare il suo ritorno in Congo. Ma lo scoppio della Prima Guerra Mondiale distrusse il suo sogno. Nel 1916, a poco più di trent’anni, accese un fuoco rituale, si estrasse le capsule dai denti e con un’arma che rubò si sparò un colpo al cuore.
Chi fu il vero selvaggio in questa storia?
Bibliografia
Antonio Monda, Ota Benga, Milano, Mondadori, 2015
Sitografia
http://www.buongiornoafrica.it/la-storia-di-ota-benga/2683
http://www.reunionblackfamily.com/apps/blog/show/43351560-ota-benga-the-congo-man-who-was-caged-in-a-america-animals-zoo-in-1904
http://www.enzopennetta.it/2015/04/andrea-monda-scrive-su-ota-benga-quando-il-darwinismo-diventa-razzismo/