Donald Trump. Sogno (americano) o son desto?
Aggiornamento: 26 ott 2020
«Facciamo tornare grande l’America. Liberiamoci dai politici idioti!» Donald Trump
Che nei suoi confronti si provi avversione o simpatia, resta il fatto che il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti sia un personaggio culturalmente significativo. Sì, perché la cultura è ciò che tiene insieme gli uomini e mette ordine nel mondo che li circonda, e decine di milioni di americani hanno votato Donald Trump per mettere ordine nel loro. Il futuro americano è stato democraticamente consegnato nelle mani di un uomo che ha pubblicamente mostrato la sua antipatia nei confronti di talune categorie sociali, la sua poca considerazione per il genere femminile, per l’ambiente, per le regole democratiche e per la verità.
Citato in giudizio in più di 4000 cause (alcune delle quali per frode civile), indagato per i rapporti intrattenuti con criminali russi, americani, esponenti della mafia e con uno dei più grandi trafficanti di cocaina – come documenta nel suo libro il Premio Pulizer David Cay Johnson –, il Presidente americano ha interessi finanziari in tutto il mondo e relazioni contrattuali con governi stranieri, è amico di re, sceicchi e dittatori di varie nazioni, ma la questione conflittuale tra la carica che ricopre e gli interessi che persegue a titolo personale, pur rappresentando un impedimento, al momento pare non destare grandi problemi.
Family&family La famiglia politica di Donald Trump, definita da lui stesso, è costituita da un insieme di americani bianchi, verosimilmente cristiani.
Quella naturale, invece, affonda le sue radici in Germania – allora il nome d’origine era Drumpf. Il nonno del Presidente, Friedrich, era un immigrato tedesco che, sedicenne, approdò in America in cerca di fortuna. Inizialmente racimolò un discreto gruzzolo costruendo su terreni dei quali non era proprietario, gestì un alberghetto e, in seguito, una tavola calda nel cui retro c’era un bordello a basso costo – come riporta Gwenda Blair, autrice della biografia dei Trump, approvata dalla stessa famiglia. L’intraprendente Friedrick ritornò in Germania dove sposò una bionda maggiorata (una preferenza distintiva degli uomini di casa) e poi di nuovo, con lei, negli States. Poiché la moglie non ebbe un buon feeling con il nuovo paese, la coppia rientrò Germania dove le autorità rispedirono indietro il novello sposo per aver eluso, anni addietro, la chiamata alle armi. Tornato a New York, l’uomo continuò ad accumulare denaro con l’aiuto di businessman “sospetti”, fino a che morì nel 1918 contagiato dall’epidemia di influenza spagnola.
Gli affari di famiglia furono portati avanti da Fred junior che entrò nella maggiore età con un arresto per aver partecipato agli scontri tra la polizia e il Ku-Klux-Klan, del quale era sostenitore. Alla fine degli anni ’20 Fred Trump costruiva case nel Queens ma con la depressione del ’29 si diede alla gestione di quello che oggi potremmo definire un moderno supermercato. Durante la Seconda guerra mondiale, si accaparrò le commesse governative per la costruzione di caserme e caseggiati in Pennsylvania e in Virginia e incrementò sensibilmente la sua fortuna. Nel dopoguerra, grazie alla sua spiccata “capacità” di destreggiarsi nelle gare pubbliche di appalto, costruì migliaia di appartamenti a Brooklin e nel Queens,. Il suo socio si chiamava Willie Tomasiello – identificato come un associato delle famiglie mafiose newyorkesi dei Genovese e dei Gambino. Come il padre, anche lui sposò uno schianto di donna, un’assistente di volo – nel frattempo divenne anche pilota.
Gli affari con i capi di quelle cosche proseguirono con Donald Trump, seppur condotti in modo molto più sottile rispetto a quello del padre.
Donald Trump Nel 1964 compiva diciotto anni. Gli fu risparmiata la guerra in Vietnam con una serie di esoneri, di natura scolastica e medica (dei quali afferma di non ricordare molto). Trump sostiene di aver studiato alla Ivy League, un’Università in Pennsylvania molto accreditata dove apprese, come ha pubblicamente dichiarato, «cose da super genio», seppur risulti che abbia frequentato soltanto i corsi base e siano in molti a sostenere di non averlo mai incontrato al campus universitario. Fu proprio mentre era uno studente, che iniziò ad occuparsi degli affari di famiglia. Ma non partì proprio da zero, come ama raccontare: già quando era in fasce possedeva un fondo fiduciario i cui soli dividendi ammontavano a 12.000 dollari l’anno (una discreta sommetta, nel 1946).
Donal divenne il degno successore di suo padre. Non intrattenne soltanto rapporti con belle donne ma anche con personaggi di grande calibro, come l’avvocato Roy Cohn (che lo avvicinò alle imprese di costruzione gestite dalla mafia). Inizialmente Cohn fu assunto da Trump per citare in giudizio il governo federale che indagava su casi di discriminazione razziale da parte di vari immobiliaristi – Trump, come altri, affittava ad afroamericani, portoricani e non-bianchi solo gli appartamenti più scadenti. Alla fine della causa, Donald, non proprio incolpevole, fu costretto a scendere a patti con il governo.
Nell’Arte di fare affari, in versione scrittore-saggista (una dozzina, i suoi libri), l’eclettico tycoon affermava di avere convinto il Procuratore generale del New Jersey a limitare le indagini sul suo conto quando gli chiese, nel 1981, l’autorizzazione ad aprire un casinò. Fatto che poi, anni dopo, quando emersero i suoi rapporti con la mafia, mise in imbarazzo i funzionari statali.
Trump divenne noto al grande pubblico facendo ingresso nel mondo del football, negli anni ‘80 – campo nel quale si comportò esattamente come nella conduzione dei suoi affari. Ma in quel periodo si distinse anche per un altro fatto: la costruzione del suo edificio simbolo sulla Fifth Avenue, la Trump Tower, commissionata stranamente a un’azienda di lavavetri di proprietà di un immigrato polacco. Per far posto alla Tower, si dovette demolire il grande magazzino Bonwit Teller. Ciò che fu distrutto da una squadra di clandestini privi di documenti, mascherine a protezione dell’amianto, caschetti, guanti e di un regolare contratto salariale, fu “uno scintillante gioiello”, secondo l’American Architect, i cui tesori architettonici furono promessi dal magnate al Metropolitan Museum. Tesori che invece furono distrutti poiché la rimozione conservativa avrebbe comportato costi eccessivamente elevati. Com’era possibile che nel cuore di Manahattan potessero lavorare uomini, per di più clandestini, in quelle condizioni, lo si può immaginare. Quando l’edificio fu abbattuto, un membro del sindacato demolitori citò in giudizio il sindacato corrotto e Trump. Il giudice federale stabilì che quest’ultimo aveva deliberatamente sfruttato gli operai. Così, anche in quell’occasione, il tycoon dovette arrivare a un accomodamento.
Nel 1990 il suo impero era sull’orlo del fallimento. Quell’anno, vari banchieri occuparono una sala conferenze della Tower per cercare di sistemare la situazione. Ben settanta banche creditrici ingaggiarono una società di contabilità affinché venisse fatta luce sui conti del magnate. Trump, a sua volta, ingaggiò fior di avvocati che alla fine riuscirono a siglare un accordo con i creditori. Nessuno voleva pronunciare la parola bancarotta, così la baracca fu tenuta a galla – salvata dal governo. Malgrado ciò, l’anno dopo quella sgradita parolina saltò fuori. Nella sua brillante carriera imprenditoriale, Trump, oltre ad essere stato oggetto di indagini fiscali – pare che alle sue aziende pagare le tasse non piacesse particolarmente –, ha affrontato quattro bancarotte (secondo alcune fonti, sarebbero addirittura sei). Quei disastri, che oggi minimizza, sono costati agli investitori più di 1,5 miliardi di dollari.
Tra un business e l’altro, qualcuno condotto con l’aiuto di Joseph Weichselbaum (un importante mercante di droga), quale acclamato uomo di successo, nel 2005 l’intraprendente Donald volò in Colorado per tenere un discorso motivazionale ai giovani che si avviavano alla carriera imprenditoriale. Un discorso bizzarro, decisamente poco motivazionale, incentrato su una serie di insulti all’aeroporto Internazionale di Denver, alle sue ex mogli e ai suoi ex soci in affari, ma che rivelò molto dell’uomo-Trump, soprattutto quando raccomandò la vendetta come politica aziendale.
«Vendicatevi! Se qualcuno vi fotte, fottetelo dieci volte. Vedrete che vi farà stare bene. Cazzo se mi sento bene, io». Parole che assumono un significato maggiore da parte di un cristiano che «nessuno legge la Bibbia più di me», dal momento che Gesù ripudiò l’”occhio per occhio” del Vecchio Testamento.
I due motti di Trump erano e sono “vendicati sempre” e “colpisci più forte di quanto ti hanno colpito”.
Forte della sua onniscienza nel campo degli affari, desideroso di condividerla con il prossimo, nel 2005 il tycoon fondò la Trump University ovvero una falsa università in cui il corpo insegnante era composto di venditori su commissione, per la quale nel 2012 fu citato in giudizio per truffa.
«L’America ha bisogno di un presidente con una straordinaria intelligenza, furbizia, astuzia, forza e resistenza.» Donald Trump
Nel 2017, a sorpresa di molti addetti ai lavori, politologi, giornalisti, esperti di comunicazione, il platinato miliardario è diventato il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. Prima di allora, nel 1988, si era candidato senza successo come vice di George Bush; nel 2012 aveva manifestato di nuovo l’intenzione di entrare in politica ma poi aveva ritirato la sua candidatura.
Quando nel 2015 annunciò la sua campagna alla corsa presidenziale nell’auditorium della Trump Tower, i giovani che applaudivano entusiasti si rivelarono poi essere degli attori retribuiti. Il capo esecutivo della sua campagna fu un certo Steve Bannon – additato dalle Associazioni in difesa dei diritti civili e dai parlamentari democratici, come un personaggio razzista, antisemita e misogino.
A dispetto di tutto, fu una vittoria.
Il sogno americano Magic Donald è un uomo noto al mondo intero per avere un rapporto conflittuale con la verità. L’imponente collezione delle sue bugie è spesso online, tanto che il New York Times ha dedicato un’ampia antologia alle frottole presidenziali, scrivendo che «sarebbe ingenuo credere che Trump stia commettendo errori in buona fede. Semplicemente mente.» La sfera è di gravità più o meno ampia: dal Russiagate – a denunciare sotto giuramento le bugie del Presidente, è stato l’ex Direttore dell’Fbi James Comey –, ai peccati di vanità, ad affermazioni che non trovano alcun riscontro con la realtà.
Perché ha vinto la corsa alla Casa Bianca? Innanzitutto perché il voto in suo favore ha rappresentato un voto di protesta nei confronti del vecchio establishment. L’alternativa politica, d’altronde, ricadeva su una contendente finanziata da multinazionali, banche speculative, nonché dal paese che aveva sfornato terroristi anti-americani. Era difficile per la Clinton dimostrare in modo credibile di essere solidale con i lavoratori quando chi finanziava la sua campagna elettorale era responsabile della crisi economica. Quella classe lavoratrice, composta in prevalenza da americani bianchi, si sentiva (e si sente) minacciata da immigrazione, terrorismo, tecnologia e da un’economia ristagnante.
In seconda analisi, Trump incarna (erroneamente) il sogno americano ovvero la convinzione che ciascun uomo, qualunque siano le sue origini, possa riuscire con il duro lavoro e con la determinazione (teoricamente in maniera onesta) a raggiungere il benessere economico e una buona posizione sociale. Per molti americani Magic Donald è un vincente, un imprenditore di successo che risolleverà un’economia offuscata a costo di rinnegare i protocolli ambientali, innalzare muri e rispolverare politiche protezionistiche e nazionaliste. Trump è bello, è bianco, è sicuro di sé, ama la grana e la “gnocca”, si rivolge alla gente rompendo le regole del linguaggio politically correct, usa termini semplici ma efficaci, è, in sostanza, il condottiero che riparerà i danni delle politiche neoliberiste dei suoi predecessori. Agli americani che lo hanno votato non è mai importato il fatto che raccontasse frottole quanto piuttosto il suo senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato per il paese.
Risulta difficile pensare che un personaggio di tale tracotanza e poca finezza potrà essere un buon Presidente. Entrerà nella lista dei “cattivi” dell’Impero? Insieme a Truman che sganciò le atomiche sul Giappone, a Nixon che fece la guerra in Vietnam, a Reagan con le sue politiche imperialiste in America Centrale, ai due Bush e le guerre in Medio Oriente? Chi lo sa, tutto è possibile! D’altronde mentre Barak Obama faceva la guerra veniva insignito del Premio Nobel per la Pace.
Bibliografia
Johnson David Cay, Donald Trump, Torino, Einaudi, 2016
Aime Marco, Cultura, Torino, Bollati Boringhieri, 2013
Sitografia
https://www.theguardian.com/us-news/2016/nov/12/inside-the-mind-of-donald-trump-biographer-gwenda-blair
http://www.globalist.it/world/articolo/213836/nuove-accuse-a-trump-legami-d-039-affari-anche-con-i-criminali-russi.html
http://www.repubblica.it/esteri/2017/06/24/news/donald_trump_bugie_new_york_times-168971977/
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Tutte-le-bugie-di-Trump-in-un-affondo-del-New-York-Times-Per-lui-verita-irrilevante-6f3c2958-52bb-4744-920a-5f599d0a9030.html
https://www.internazionale.it/bloc-notes/alessio-marchionna/2017/06/10/testimonianza-comey-trump