Muhammad Ali, dentro e fuori dal ring
Aggiornamento: 26 ott 2020
Dentro un ring o fuori, non c'è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra. (Muhammad Ali, “the Greatest”)
Il pugile più forte? Non è sicuro che lo sia stato. Ma con tutta probabilità stilisticamente il migliore e certamente il più popolare di tutti i tempi.
Lo sportivo e il personaggio più famoso della sua epoca, una personalità travolgente che ha fatto conoscere la boxe al mondo intero. Il primo atleta a varcare con prepotenza i confini dello sport.
Ali vs Foreman
Quando arrivò in Italia, in occasione delle Olimpiadi del 1960, aveva 18 anni ed era ancora Cassius (Marcellus) Clay. La medaglia d’oro di Roma segnò la fine del suo percorso dilettantistico - iniziato sei anni prima nel suo paese natale, il Kentucky. La decisione di intraprendere la via del pugilato fu dettata da una sua scelta e non da una necessità, perché la famiglia Clay godeva di un tenore di vita superiore rispetto alla media della popolazione afroamericana. In sostanza, non fu mai un ragazzo da rissa in strada come molti altri pugili di colore.
Nell’America degli anni ’60, fortemente imperniata su una cultura razzista, Clay comprese fin da subito che il pugilato sarebbe stata l’unica strada possibile per avere successo e denaro. Boxare gli riusciva bene, mentre per lo studio non era portato - sapeva a malapena leggere e scrivere, ed ottenne il diploma degli studi secondari quasi ad honorem.
In seguito alla medaglia d’oro di Roma, accettò la proposta di un gruppo di imprenditori (“bianchi”) della sua città che fiutarono il guadagno di raccogliere scommesse e di puntare sulla sua vittoria, e fece ingresso nel mondo del professionismo.
Il primo incontro da professionista, lo disputò nel dicembre 1960.
Dopo qualche tempo, passò sotto la guida esperta dell’allenatore Angelo Dundee, un italoamericano ben introdotto nel grande giro della boxe, che lo fece trasferire a Miami dove aveva sede la sua palestra, la Fifth Street Gym.
Fin dall’inizio della sua carriera, Cassius Clay si manifestò spaccone, presuntuoso e consapevole della sua bellezza (qualità che sfruttò in varie occasioni), tanto che la stampa e il pubblico lo presero in antipatia - per poi ricredersi quando diventò Il Campione. Aveva l’abitudine di insultare l’avversario e di innervosirlo con strofette canzonatorie, dando vita a uno show di cui tutti poi avrebbero parlato. Fu provocatorio anche fuori dal ring, cosa insolita per i pugili di quel tempo. Ma mentre nel suo privato era tutto sommato una persona normale, in pubblico si scatenava, lanciando proclami e improvvisando comizi.
Nel 1959 entrò in contatto con la Nation of Islam (NOI), l’organizzazione guidata da Elijah Muhammad, un personaggio ambiguo che sullo sfondo dell’odio nei confronti della razza bianca, predicava il recupero delle radici nere da perseguire con la violenza. Della NOI fece parte anche Malcolm X (con il quale Cassius tenne i rapporti fino al 1964 e del quale pianse la morte quando fu assassinato, secondo alcune tesi proprio per mano della NOI). L’appartenenza a questa organizzazione fu piuttosto controversa: da una parte Clay le fu ciecamente fedele, dall’altra ne seguì solo i precetti che non entravano in contrasto con la sua personalità (come la passione per le donne, ad esempio).
La sua conversione religiosa sotto l’ala della NOI per taluni ebbe, e forse non a torto, un vago odor di fanatismo, anche se va detto che si impegnò con convinzione nella difesa dei diritti dei neri. E parliamo di un periodo in cui il razzismo in America era una faccenda molto seria.
Una sorta di incoerenza si evince anche dalle due frasi che seguono, da lui pronunciate, rispettivamente prima e dopo l’ingresso nell’organizzazione: «Io sono l'America. Sono quella parte che voi non riconoscete. Ma abituatevi a me: nero, sicuro di me, impertinente» e «Io non voglio essere americano, io sono asiatico nero come la mia gente che voi bianchi avete portato qui come schiavi e si chiamavano Rakman e Assad e Sherif e Shabad e Ahbad e Mohammed e non John e George e Chip e pregavano Allah che è un Dio molto più antico del vostro Geova o del vostro Gesù e parlavano arabo che è una lingua assai più vecchia del vostro inglese che ha solo quattrocento anni, ed ora queste cose le so per via di Elijah Mohammed che amo più della mia mamma. Certo, sicuro, più della mamma perché la mia mamma è cristiana, Elijah Mohammed musulmano e per lui potrei anche morire, per la mia mamma no, che a voi bianchi piaccia o non piaccia». La seconda frase è estrapolata da un’intervista che rilasciò a Oriana Fallaci, pubblicata su l’Europeo il 26 maggio 1966. Indipendentemente dal fatto che le opinioni espresse dalla signora Fallaci riguardo l’Islam fossero (o siano) più o meno condivisibili, quelle parole fu proprio Ali a pronunciarle.
Chi era Elijah Muhammad? Due autori, entrambi neri, un docente di storia e un giornalista del Washington Post, hanno scritto delle biografie molto approfondite su quest'uomo che si faceva chiamare il Messaggero di Allah. I due biografi non sono d'accordo su un gran numero di dettagli, tuttavia, nel complesso, i loro testi si completano a vicenda permettendo di delineare il personaggio in modo esauriente. Un uomo che offrì una religione popolare amalgamata a principi fantascientifici, che detestava gli Stati Uniti e amava i loro nemici, soprattutto quelli non caucasici. Arricchitosi grazie alla fama della NOI, si lasciò andare al lusso, viaggiando a bordo di un jet privato Lockheed, indossando un fez costellato di gioielli e permettendo che la sua famiglia spremesse le casse dell’organizzazione. La sua condotta generò gravi tensioni e costituì il motivo della rottura con Malcolm X.
Ali con Malcom X
Nel 1964, all’età di 22 anni, Cassius Clay divenne campione del mondo e cambiò il suo nome in Muhammad Ali.
Nel 1966, quando gli Stati Uniti decisero di ingrossare le truppe da inviare in Vietnam rendendo abili all’ingaggio anche coloro che non avevano superato i test di ammissione, Ali rifiutò di combattere quella guerra.
«Come quando mi chiamarono alle armi e mi fecero l'esame della cultura mi dissero se un uomo ha sette vacche e ogni vacca dà cinque galloni di latte e tre quarti del latte va perduto quanto latte rimane? Io che ne so. [...] E così dicono che sono inabile ma d'un tratto scoprono che non sono inabile affatto per morire nel Vietnam, sono abilissimo eccome, ma io questo Vietnam non so nemmeno dov'è», dichiarò nell’intervista alla Fallaci.
In quell’occasione, Ali diede prova di quell’intelligenza e di quel fiuto che lo caratterizzavano e che gli consentivano di sfruttare le situazioni a suo vantaggio. Pur non sapendo praticamente niente del Vietnam, rilasciò una dichiarazione che passò alla storia: «Io non ho niente contro i Vietcong. Nessuno di loro mi ha mai chiamato negro». La diserzione gli costò una condanna a cinque anni di reclusione (che non scontò), una multa di diecimila dollari e il ritiro del passaporto, del titolo di campione e della licenza di pugile.
Sebbene rimase lontano dal ring per tre anni e mezzo, il suo mito resistette. Sfruttò la sua immagine attraverso impegni politici e attività prive di contenuto sportivo, e non fu dimenticato.
Nel 1971 la Corte Suprema lo scagionò dall’accusa di renitenza alla leva, - lui però aveva già ripreso a combattere l’anno prima.
Pronto a riprendersi il titolo, Ali sfidò l’allora detentore, Joe Frazier. L’incontro dell’8 marzo 1971 al Madison Square Garden di New York fu, secondo gli addetti ai lavori, una delle più belle pagine del pugilato che siano mai state scritte. Un incontro violento e intenso che vide Frazier vincere ai punti ma che lasciò intatta la popolarità di Ali.
Nel 1974 arrivò il momento della rivincita con Frazier (sconfitto a sua volta da Foreman, il campione del mondo in carica in quel momento), e in seguito l’inevitabile incontro con Foreman.
Quello che si tenne a Kinshasa (l’allora Zaire) fu uno degli eventi sportivi più celebri di sempre, nato dall’idea folle di uno dei personaggi più chiacchierati della storia del pugilato: Don King.
«Io sono l’attestazione vivente del sogno americano. Io sono l’esaltazione di questa grande nazione. Tutto è possibile in America.» Don King.
L’omone dai capelli elettrici e il sigaro perennemente tra le labbra, che arrivava dritto dritto dalla galera, si inserì furbamente nelle vicende di Ali e riuscì ad avere l’ingaggio per combinare l’incontro. Dato l’impegno politico di Ali, per gonfiare il ritorno mediatico dell’evento, pensò di organizzarlo in Africa. Mobutu, il dittatore dello Zaire, fu lieto di portare il suo paese sulla “carta geografica del mondo” e di finanziare le borse dei due pugili che ammontavano a 5 milioni di dollari ciascuna.
E anche questo fatto, non fu proprio un esempio di brillante coerenza. La rivendicazione dei diritti dei neri di cui era portavoce Ali e la disputa dell’incontro in un paese in cui i neri erano sottomessi a un dittatore sanguinario - oppressivo, miliardario, accusato di violazione dei diritti umani, sostenuto dal governo statunitense “bianco” nelle sue posizioni anticomuniste -, fu un binomio stridente.
Ancora una volta, Ali esibì il suo repertorio di provocazioni e insulti nei confronti dell’avversario. Alla fine, ne uscì che Foreman non era abbastanza nero: aveva un cane tedesco, amava il baseball, il cinema e la coca cola. Quando fu scaraventato in Zaire non si sentì a suo agio e il rinvio di un mese del match, dovuto a un incidente durante l’allenamento, aumentò quel disagio.
Nel frattempo Ali sfruttò il tempo a disposizione per accattivarsi la simpatia del pubblico.
«The Rumble in the Jungle» fu un match memorabile che si concluse con la vittoria di Ali, nuovamente campione del mondo. Foreman, vero picchiatore poco veloce ma dalla potenza inaudita, non andò a segno, mentre Alì mise in atto un vero e proprio capolavoro tattico - e l’allentamento delle corde del ring da parte di Angelo Dundee lo aiutò, permettendogli di allontanarsi dai colpi dell’avversario.
Le qualità pugilistiche migliori di Ali furono la velocità e la coordinazione. Nel suo modo di boxare non c’era la cattiveria del picchiatore, ma l’eleganza e la leggerezza dei movimenti. Il suo modo di danzare sul ring era qualcosa di mai visto prima. Tuttavia, a un certo punto della sua carriera, con l’avanzare dell’età, si dovette scoprire anche un incassatore - un tipo di pugilato che non gli piaceva ma che fu costretto a praticare.
La fase finale della sua carriera si caratterizzò in parte dallo sfruttamento commerciale della sua popolarità. Disputò altri match, fra i quali un terzo con Frazier, ma da quel momento iniziò il suo decadimento fisico.
Nel 1978 perdette il titolo, tuttavia non ce la fece a chiudere con il pugilato, complice Don King e le sue promesse di incassi faraonici. Così si ritrovò bloccato in un circo senza riuscire ad uscirne e continuò a boxare, malgrado i ripetuti annunci del suo ritiro, travolto dalla sua stessa notorietà e da un tenore di vita che esigeva denaro.
La sua popolarità fu consacrata da un’immagine che il mondo intero ricorderà per sempre: Ali, l’ultimo tedoforo a prendere la torcia e accendere la fiamma olimpica, ad Atalanta nel 1996. In quell’occasione gli venne anche riconsegnata la medaglia d’oro vinta a Roma nel 1960 (non è chiaro se smarrì l’originale oppure se lo gettò in un fiume come gesto di protesta perché di ritorno in patria dopo i fasti romani, un ristoratore si rifiutò di servirlo in quanto nero).
I numeri di Ali 4 mogli, 9 figli e una marea di amanti. La prima moglie lo lasciò perché non le andavano a genio i precetti dell’Islam. La seconda perché lo pizzicò con l’amante, «Si giustificò dicendo che l'Islam ammette la poligamia. Gli risposi che noi vivevamo in America dove la poligamia non era accettata», dichiarò la donna - musulmana, cintura nera di karate - che, prima di chiedere il divorzio, gliele diede di santa ragione. Durante il secondo matrimonio, Ali ebbe due figlie segrete da due amanti. La terza moglie la sposò due volte: di nascosto mentre era ancora sposato con la seconda e poi successivamente per rendere legale il matrimonio; anche lei non tollerava i precetti dell’Islam. La quarta fu quella del dopo carriera che riorganizzò i suoi affari e si prese cura di lui fino alla fine.
Nel corso del suo strepitoso percorso da professionista, Ali riportò 56 vittorie (37 delle quali per Ko) e 5 sconfitte. Si ritirò nel 1981, 3 anni prima che gli venisse diagnosticato il morbo di Parkinson, per poi spegnersi il 3 giugno scorso.
«Non era perfetto, naturalmente. Nonostante tutta la sua magia sul ring poteva essere malaccorto con le parole e, con l'evolversi della sua fede, pieno di contraddizioni. Ma alla fine il suo spirito eccezionale e contagioso - innocente, persino - gli valse più ammiratori che nemici. Forse perché in lui speravamo di scorgere qualcosa di noi stessi.» Barack Obama
Come si nota, ho riportato solo gli incontri di Ali più noti al grande pubblico. Non volendo fare di questo articolo una cronaca di boxe, i “buchi pugilistici” sono intenzionali. Ho voluto dare enfasi a “the Greatest” in un contesto d’insieme, cioè non soltanto allo sportivo ma anche all’uomo, con la sua forza, le sue debolezze e le sue contraddizioni.
Bibliografia
Tommasi Rino, Muhammad Ali. L’ultimo campione. Il più grande?, Roma, Gargoyle Editore, 2014
Fallaci Oriana, articolo da l’Europeo del 26 maggio 1966
Sitografia
http://www.biography.com/people/muhammad-ali-9181165#boxing-comeback
http://it.danielpipes.org/12914/vinto-elijah-muhammad
http://historynewsnetwork.org/article/142725
http://www.history.com/topics/black-history/muhammad-ali
http://news.boxeringweb.net/rubriche/bordo-ring-di-dario-torromeo/39150-la-triste-decadenza-di-don-king,-omone-dai-capelli-elettrici.html