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Thomas Sankara, considerazioni sulle politiche post coloniali

Aggiornamento: 26 ott 2020

Thomas Sankara


Thomas Isidore Noël Sankara (1949 –1987) è stato il Presidente del Burkina Faso. Rivoluzionario iconico e leader carismatico, nel 1983 cambiò i destini dell’Alto Volta.

Ufficiale dell’esercito, prese il potere nel 1983 e a 34 anni si ritrovò a capo di un paese dilaniato dalla povertà. Un pezzo di terra con un solo corso fluviale e nessuno sbocco sul mare, in cui il deserto avanzava di sette chilometri all’anno mangiandosi i campi coltivati.

Sankara rimase Presidente fino 1987, anno in cui fu trucidato. I mandanti? Verosimilmente Francia e Stati Uniti con la complicità del suo migliore amico nonché compagno d’armi, Blaise Campaoré, che prese poi il timone del paese.


Politica interna In un paese in cui ogni cinque bambini nati, uno non arrivava a compiere un anno, un tasso di alfabetizzazione del 2%, una speranza di vita limitata a 44 anni e un medico ogni 50.000 abitanti, Sankara compì un’impresa grandiosa: fece vaccinare contro il morbillo, la meningite e la febbre gialla il 60% dei bambini burkinabé, costruì nuove scuole, nuovi ospedali, promosse la formazione sanitaria dei capi villaggio obbligandoli a seguire corsi di pronto soccorso e fornì d’ufficio due pasti al giorno e dieci litri d’acqua a ciascun cittadino del suo paese.

Attuò una riforma agraria attraverso la quale soppresse le imposte agricole, re-distribuì la terra ai contadini, formulò la riorganizzazione del lavoro nei campi unitamente a un programma di riforestazione.

Creò un Ministero dell’acqua – risorsa quanto mai preziosa nel suo paese. «Il deserto ti insegnerà una verità» disse una volta un mercante del Sahara al giornalista Ryszard Kapuscinski «E cioè che esiste qualcosa che si può desiderare e amare più di una donna: l’acqua.»

Sankara si batté per il miglioramento delle condizioni delle donne, le invitò a ribellarsi al maschilismo imperante, cercò di eradicare la prostituzione, abolì la poligamia, vietò l'infibulazione e fu tra i primi a denunciare la piaga dell’AIDS.

Combatté la corruzione e ridusse i privilegi di politici e militari (sostituendo ad esempio le Mercedes in dotazione ai ministri, con le più economiche Renault 5). Inoltre, si decurtò lo stipendio per non gravare sulle casse dello Stato. Fu il Presidente più povero del mondo, proprietario di una Renault 5, una bicicletta, una moto, qualche libro, due chitarre e un appartamento gravato da un mutuo che non finì mai di pagare.


Politica estera Sostenitore del Panafricanismo e idealista convinto, nel 1984 cambiò il nome del suo paese da Alto Volta in Burkina Faso (“paese degli uomini integri”). Ispirò la sua politica a Che Guevara e promosse una rivoluzione in nome dell’ideologia antimperialista, nell’ottica della quale cercò di convincere (senza successo) gli altri Capi di Stato africani a rifiutarsi di saldare il debito nei confronti di Stati Uniti e potenze europee.

«Siete voi ad avere ancora debiti nei nostri confronti, tutto il sangue preso all’Africa!», sentenziò durante un accalorato discorso rivolgendosi ai paesi occidentali.

Sankara propose l’espulsione del Sudafrica dalle Nazioni Unite a causa della detenzione in carcere di Nelson Mandela, nonché la sospensione di Israele.

Costruì la Ferrovia del Sahel, che collega a tutt’oggi il Burkina Faso e il Niger.

Rifiutò polemicamente gli aiuti internazionali e le proposte avanzate dal Fondo Monetario Internazionale.

L’autosufficienza alimentare del suo paese fu uno dei suoi progetti più ambiziosi che cercò di attuare attraverso politiche protezionistiche.


Fu dall’integrità morale che Sankara cominciò per tagliare i ponti con un passato di soprusi e un presente avvilente. A dimostrazione di quell’integrità, rifiutò in dono un aereo presidenziale. Incorruttibile fino al midollo, non si accattivò ovviamente la simpatia dei paesi occidentali (in particolare degli Stati Uniti – i signori dell’imperialismo - e della Francia che dopo lo decolonizzazione dell’Alto Volta non volle cessare di spremerne i frutti), né tantomeno di alcuni gruppi di potere come i sindacati e i proprietari terrieri burkinabé.


Che facevano in quegli anni gli altri Presidenti africani? Ebbene, si godevano l’indipendenza, trincerati in lussuose ville, lontani dai bisogni del loro popolo.

Il Burkina Faso rappresentava un esempio scomodo per le altre nazioni del continente governate da élite corrotte prostrate ai dictat delle banche internazionali. Sankara, con la sua indisciplina, non poteva essere tollerato perché era la voce dell’Africa che urlava e denunciava.

All’incontro dell’Organizzazione dell’Unione Africana, nel luglio 1987, fece traboccare il vaso con una goccia instillata in modo plateale, un discorso memorabile che resterà nella storia, pronunciato dinnanzi agli altri Presidenti africani:


Il debito si analizza dapprima in base alla sua origine. Le origini del debito rimontano alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato dei soldi, sono loro che ci hanno colonizzato. Sono gli stessi che hanno dato origine ai nostri Stati e alle nostre economie.

Il debito è ancora neo-colonialismo, dove i colonialisti si sono trasformati in assistenti tecnici (in pratica, dovremmo dire «assassini tecnici»). E sono loro che ci hanno proposto delle fonti di finanziamento. Ci hanno presentato dei dossiers e dei prospetti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquanta, sessanta anni e anche di più. Vale a dire che ci hanno portato a danneggiare i nostri popoli per cinquanta e più anni.

Il debito, nella sua forma attuale, è una riconquista, sapientemente organizzata, dell’Africa, affinché la sua crescita e il suo sviluppo obbedissero a dei paletti, a delle norme che ci sono totalmente straniere. Facendo in modo che ciascuno di noi diventi lo schiavo finanziario, vale a dire lo schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, la capacità di ingannare, la furberia di piazzare dei fondi da noi con l’obbligo di rimborsarli.

Noi non possiamo rimborsare il debito, perché non abbiamo con che pagare. Non possiamo pagare il debito, perché, al contrario, gli altri che ci devono le più grandi ricchezze non potranno mai ripagarle, sto parlando del debito del sangue .

Quando diciamo che il debito non sarà pagato, non è affatto che noi siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. È perché riteniamo che non abbiamo la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero, non c’è la stessa morale.

Bibbia e il Corano, non possono servire allo stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato: ci vorrebbero due edizioni della Bibbia e due del Corano.

Vorrei che la nostra conferenza evidenziasse la necessità di dire chiaramente che non possiamo pagare il debito. Dobbiamo dirlo tutti assieme, per evitare che dicendolo individualmente, finiremmo per farci assassinare. Se il Burkina Faso rifiuta da solo di pagare il suo debito, io non sarò qui alla prossima conferenza. Ed evitando di pagare potremo utilizzare le nostre scarse risorse per il nostro sviluppo.

Quello che sarà risparmiato andrà allo sviluppo: In particolare eviteremo di indebitarci per poi acquistare armi, perché ogni volta che un paese africano acquista armi, non può non farlo che contro un altro paese africano.

E potremo ugualmente utilizzare le nostre immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo ed il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia, abbiamo un mercato immenso da nord a sud e da est a ovest. Abbiamo sufficienti capacità intellettuali per creare e prendere la tecnologia e la scienza ovunque possiamo trovarle.

Facciamo si in oltre che il mercato africano sia davvero il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo ciò di cui abbiamo bisogno e consumiamo quel che produciamo invece di importarlo. La mia delegazione ed io stesso, siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga dall’Europa o dall’America.


Nel contesto del suo intervento, Sankara profetizzò: «Se il Burkina Faso si rifiuta da solo di pagare il debito, io non sarò presente al prossimo congresso.» E infatti poco dopo fu ucciso.

Qualche settimana fa, il nuovo Presidente del Burkina Faso ha concesso l’autorizzazione affinché la salma del “Che Guevara d’Africa” venga riesumata. Con la deposizione di Blaise Compaoré sarà finalmente possibile far luce sulla sua morte misteriosa, che l’autopsia effettuata nel 1987 imputò ignobilmente a cause naturali. L’esito dei riscontri forse chiarirà la dinamica del decesso ma non incastrerà certo i colpevoli.


Ora facciamo un passo indietro. Torniamo a quello che dei discorsi di Sankara è rimasto profondamente inciso nella memoria collettiva, quello che - devo ammettere - mi ha strappato qualche lacrima di commozione. Parole forti, fortissime, taglienti, ancora attuali. Le parole di un’Africa “pulita”, di uomini, donne e bambini che si rifiutano di morire di ignoranza, di fame e si sete.

Un estratto.


New York, 4 ottobre 1984, 39ª sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite

Presidente, Segretario generale, onorevoli rappresentanti della comunità internazionale.

Vi porto i saluti fraterni di un paese di 274.000 chilometri quadrati in cui sette milioni di bambini, donne e uomini si rifiutano di morire di ignoranza, di fame e di sete, non riuscendo più a vivere nonostante abbiano alle spalle un quarto di secolo di esistenza come stato sovrano rappresentato alle Nazioni Unite.

Sono davanti a voi in nome di un popolo che ha deciso, sul suolo dei propri antenati, di affermare, d’ora in avanti, se stesso e farsi carico della propria storia - negli aspetti positivi quanto in quelli negativi - senza la minima esitazione.

Sono qui, infine, su mandato del Consiglio nazionale della rivoluzione (Cnr) del Burkina Faso, per esprimere il suo punto di vista sui problemi iscritti all’ordine del giorno, che costituiscono una tragica ragnatela di eventi che scuotono dolorosamente le fondamenta del nostro mondo alla fine di questo millennio. Un mondo dove l’umanità è trasformata in circo, lacerata da lotte fra i grandi e i meno grandi, attaccata da bande armate e sottoposta a violenze e saccheggi. Un mondo dove le nazioni agiscono sottraendosi alla giurisdizione internazionale, armando gruppi di banditi che vivono di ruberie e di altri sordidi traffici.

Non pretendo qui di affermare dottrine. Non sono un messia né un profeta; non posseggo verità. I miei obiettivi sono due: in primo luogo, parlare in nome del mio popolo, il popolo del Burkina Faso, con parole semplici, con il linguaggio dei fatti e della chiarezza; e poi, arrivare ad esprimere, a modo mio, la parola del “grande popolo dei diseredati”, di coloro che appartengono a quel mondo che viene sprezzantemente chiamato Terzo mondo. E dire, anche se non riesco a farle comprendere, le ragioni della nostra rivolta. È chiaro il nostro interesse per le Nazioni Unite, ed è nostro diritto essere qui con il vigore e il rigore derivanti dalla chiara consapevolezza dei nostri compiti.

Nessuno sarà sorpreso di vederci associare l’ex Alto Volta - oggi Burkina Faso - con questo insieme così denigrato che viene chiamato Terzo mondo, una parola inventata dal resto del mondo al momento dell’indipendenza formale per assicurarsi meglio l’alienazione sulla nostra vita intellettuale, culturale, economica e politica.

Noi vogliamo inserirci nel mondo senza giustificare comunque questo inganno della storia, né accettiamo lo status di “entroterra del sazio Occidente”. Affermiamo la nostra consapevolezza di appartenere a un insieme tricontinentale, ci riconosciamo come paese non allineato e siamo profondamente convinti che una solidarietà speciale unisca i tre continenti, Asia, America Latina ed Africa in una lotta contro gli stessi banditi politici e gli stessi sfruttatori economici.

Riconoscendoci parte del Terzo mondo vuol dire, parafrasando José Martí, “affermare che sentiamo sulla nostra guancia ogni schiaffo inflitto contro ciascun essere umano ovunque nel mondo”. Finora abbiamo porto l’altra guancia, gli schiaffi sono stati raddoppiati. Ma il cuore del cattivo non si è ammorbidito. Hanno calpestato le verità del giusto. Hanno tradito la parola di Cristo e trasformato la sua croce in mazza. Si sono rivestiti della sua tunica e poi hanno fatto a pezzi i nostri corpi e le nostre anime. Hanno oscurato il suo messaggio. L’hanno occidentalizzato, mentre per noi aveva un significato di liberazione universale. Ebbene, i nostri occhi si sono aperti alla lotta di classe, non riceveremo più schiaffi.

Non c’è salvezza per il nostro popolo se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di tutti i tipi hanno cercato di venderci per vent’anni. Non ci sarà salvezza per noi al di fuori da questo rifiuto, né sviluppo fuori da una tale rottura. Tutti quei nuovi “intellettuali” emersi dal loro sonno - risvegliati dalla sollevazione di miliardi di uomini coperti di stracci, atterriti dalla minaccia di questa moltitudine guidata dalla fame che pesa sulla loro digestione - iniziano a riscrivere i propri discorsi, e ancora una volta ansiosamente cercano concetti miracolosi e nuove forme di sviluppo per i nostri paesi. Basta leggere i numerosi atti di innumerevoli forum e seminari per rendersene conto.

Non voglio certo ridicolizzare i pazienti sforzi di intellettuali onesti che, avendo gli occhi per vedere, scoprono le terribili conseguenze delle devastazioni che ci hanno imposto i cosiddetti “specialisti” dello sviluppo del Terzo mondo. Il mio timore è che i frutti di tanta energia siano confiscati dai Prospero di tutti i tipi che - con un giro della loro bacchetta magica - ci rimandano in un mondo di schiavitù in abiti moderni.

Questo mio timore è tanto più giustificato in quanto l’istruita piccola borghesia africana - se non quella di tutto il Terzo mondo - non è pronta a lasciare i propri privilegi, per pigrizia intellettuale o semplicemente perché ha assaggiato lo stile di vita occidentale. Così, questi nostri piccolo borghesi dimenticano che ogni vera lotta politica richiede un rigoroso dibattito, e rifiutano lo sforzo intellettuale per inventare concetti nuovi che siano all’altezza degli assalti assassini che ci attendono. Consumatori passivi e patetici, essi sguazzano nella terminologia che l’Occidente ha reso un feticcio, proprio come sguazzano nel whisky e nello champagne occidentali in salotti dalle luci soffuse…



Il postcolonialismo


Il postcolonialismo ha costituito un’eredità pesante per l’Africa.

Da una parte, la cerchia ristretta della borghesia africana non volle abbandonare i suoi privilegi (e questo andò a discapito di un processo di democratizzazione del continente). Dall’altra, l’Africa si trovò divisa in nazioni le cui classi politiche, per incapacità o per interesse, non riuscirono a governare (se non in qualche caso). Non ultimo, in seguito alle varie indipendenze, molti conflitti etnici si esacerbarono impedendo di fatto una coesione nazionale e un sentimento di unità.

Le nuove nazioni postcoloniali (“una cinquantina rispetto a più di 10.000 staterelli, regni, gruppi etnici e federazioni del periodo precoloniale”, The African Experience – Roland Oliver), che si formarono intorno agli anni sessanta, si ressero su basi deboli che pregiudicarono le più basilari funzioni di governo negando uno sviluppo quanto mai necessario e potenzialmente possibile (considerate le risorse del continente e gli aiuti ricevuti).

Taluni Stati si dimostrarono incapaci e impreparati nella gestione dei loro governi. In parallelo, le élite africane si occuparono di consolidare potere e ricchezza con ogni mezzo, inclusa la complicità con i poteri occidentali.

Un altro elemento all’ostacolo allo sviluppo fu il fattore umano ovvero la perdita di autostima che il colonialismo instillò nei neri.


Certamente nell’Africa post-coloniale vi furono Presidenti “buoni” e Presidenti “cattivi”. Premettendo che la distinzione è del tutto personale, e qualcuno potrebbe non trovarsi d’accordo, tra i primi, a parte Thomas Sankara, si potrebbe annoverare Barthélémy Boganda, il padre della Repubblica Centrafricana (assassinato per le sue idee panafricaniste); Patrice Lumumba (assassinato con la complicità di Belgio e Stati Uniti perché considerato una minaccia in grado di coinvolgere Mosca nella sua politica); Sekou Touré della Guinea (che morì nella cella di una prigione); Nyerere, il primo Presidente del Tanganica (che abbandonò democraticamente la sua carica alla scadenza del mandato).

Tra i secondi, Robert Mugabe, a capo dell’attuale Zimbabwe (che si trasformò da padre a padrone per il suo paese); Kenyatta, Presidente del Kenya, che instaurò un autoritarismo politico responsabile di vari assassinii e favorì al potere i Kikuyu, la sua gente; Houphouet-Boigny, a capo della Costa d’Avorio, il dittatore delle contraddizioni che avrebbe preferito all’indipendenza del suo paese, l’emancipazione sotto la tutela della Francia colonizzatrice; Mobutu (che rovesciò con il sostegno di Washington il successore di Lumumba), divenuto famoso per corruzione, nepotismo, violazione dei diritti umani e l’accumulo di una enorme ricchezza sottratta al suo popolo; Bokassa, il secondo Presidente della Repubblica Centrafricana, sostenuto dalla Francia, processato poi per alto tradimento, assassinio, appropriazione indebita e cannibalismo (unico reato dal quale fu scagionato, malgrado prove e testimonianze); Idi Amin Dada, il secondo presidente dell’Uganda, paragonabile per la sua brutalità soltanto a Bokassa, che condusse il paese perseguendo una politica a dir poco criminale.






Bibliografia


Mazzola Pier Maria, Leoni d’Africa, Milano, Ed. Epoché, 2008.


Riszard Kapuscinski, Ebano, Milano, Ed. Feltrinelli, 2014.


Lory Cocconcelli, Africa–magia nera, sortilegi, streghe e guaritori, Torino, EEE, 2014.




Sitografia


http://www.sankara.it/sank_resist.pdf






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