Il tatuaggio
Aggiornamento: 26 ott 2020
Non è possibile trovare alcuna area del mondo, dalle regioni polari del nord fino alla Nuova Zelanda del sud, le cui popolazioni originarie non usassero farsi dei tatuaggi. (Charles Darwin)
Il termine tatuaggio deriva da una parola tahitiana, tatau, che significa "incidere, decorare la pelle". La sua introduzione è da attribuire al capitano J. Cook che, agli inizi del 1800, descriveva nel suo diario di bordo la tecnica di tatuare adottata dagli indigeni polinesiani.
La parola Tatau fu poi trasformata in tattoo.
Nel linguaggio corrente la definizione di tatuaggio corrisponde a un’alterazione della pelle effettuata per mezzo della puntura - oggetto del presente articolo -, tuttavia il termine comprende anche quella provocata per mezzo della cicatrice, detta anche scarificazione.
Nel corso del tempo la puntura è stata inflitta con tecniche diverse:
- tradizionali, avvalendosi di spine di pesce, conchiglie, punte d’osso, pennini, …
- meccanizzate, ricordiamo però che la macchinetta elettrica fu inventata solo nel 1891.
Il tatuaggio, già presente nelle popolazioni preistoriche, è stato utilizzato con finalità diverse, individuali e collettive. Claude Lévi-Strauss, in “Antropologia strutturale”, scriveva come l’uomo fin dall’antichità avesse sentito l’impulso di abbellire non solo gli oggetti intorno a sé, ma anche e soprattutto il proprio corpo.
Negli ultimi decenni, in occidente, il tattoo ha espresso una pluralità di significati: appartenenza, ribellione, identificazione o puro abbellimento estetico.
Le culture tribali, invece, furono (e sono) mosse da motivazioni differenti, testimonianza di un linguaggio simbolico alternativo: per indicare l’appartenenza a un clan, una tribù o un gruppo totemico; segnalare fascia di età, rango sociale o status; marchiare i criminali; esprimere il lutto; allontanare sfortuna e malattie; acquisire poteri magici; apparire più aggressivi agli occhi del nemico; … In molti casi, ancora oggi, la pratica del tatuaggio tribale è legata ai rituali di passaggio in cui il dolore provocato è parte dell'iniziazione e il corpo disegnato diventa quindi "un visto d'ingresso alla vita sociale" (Serra 1995, p. 23).
Da quando fece la sua comparsa, il tattoo è stato oggetto di atteggiamenti controversi. In vari momenti della storia, a fasi alterne, è stato considerato un marchio d’infamia, un segno di primitività, l’espressione di una volontà di potenza dell’uomo che stravolge il suo corpo naturale oppure messo in relazione alla criminalità o a credenze sataniche. Per queste ragioni, in varie aree del mondo, è stato proibito per essere, in molti casi, successivamente riabilitato.
Tatuaggio per mezzo della cicatrice altrimenti detto scarificazione
Aree geografiche di interesse etnografico L'area dove la pratica del tatuaggio raggiunse complessità maggiori fu quella della Polinesia. Di interesse anche il Sud-Est asiatico (in particolar modo Cina meridionale, Sud dell'India e Giappone), l’America (l’area meridionale dei popoli artici, quella della costa Nord degli Indiani nativi e quella centrale degli Olmechi e dei Maya) e l’Africa (sono stati rinvenuti tattoo addirittura sulla mummia di una sacerdotessa egiziana della XI dinastia - 2200 a.C.)
Il tatuaggio nel mondo occidentale Nell'Occidente antico, i Fenici tracciavano sul corpo delle linee, chiamate segni di Dio.
Nel 450 a.C., Erodoto raccontava che presso i traci l'essere tatuati significava appartenere alla nobiltà.
Nel V secolo d.C., i guerrieri gallici erano tatuati.
Nell'antica Roma, il tattoo divenne invece il tratto distintivo di schiavi e malfattori, un segno discriminatorio sostituito talvolta dalla marchiatura a fuoco. Il tatuaggio e il marchio a fuoco costituirono atti volontari tra i primi cristiani, che si imprimevano sulla pelle il segno della croce oppure il nome di Cristo.
In seguito al crollo dell'Impero Romano e all’affermarsi del cristianesimo, non ci fu più il bisogno di marchiarsi per testimoniare la propria fede. Papa Adriano I nel 787, durante il Concilio di Nicea, proibì il tatuaggio anche se l'abitudine sopravvisse in clandestinità, soprattutto tra le classi meno abbienti, i soldati e in alcuni luoghi di culto cristiani.
Nel Medioevo il marchio sul corpo divenne una prerogativa del potere, il tatuaggio invece una pratica adottata dai pellegrini che si imprimevano i simboli religiosi dei santuari visitati nonché dei soldati che partecipavano alle Crociate.
Alla fine del 1700, gli artigiani europei erano riconoscibili da tatuaggi che ne certificavano la professione. Mentre in Francia i malfattori erano marchiati con una P, i disertori dell'esercito inglese venivano tatuati con una D.
Dall’epoca delle scoperte geografiche in poi, il tatuaggio volontario tornò ad affacciarsi massicciamente in Europa. Era l'epoca dei viaggi lontani, nel corso dei quali gli esploratori incontrarono i popoli che ne praticavano l'arte. I marinai iniziarono a tatuarsi, dando avvio a un'usanza che divenne tradizione diffusa in marina.
Alla fine dell'Ottocento e all'inizio del Novecento il tatuaggio era considerato dagli studiosi il residuo di una mentalità primitiva e l'influenza delle teorie di Darwin rafforzò questa visione. Se tra i selvaggi farsi tatuare rappresentava un segno di infantilità, presso gli occidentali era indice di devianza. Ma quando farsi tatuare divenne una pratica diffusa tra la nobiltà e l'alta società (tra personaggi del calibro di Edoardo VII, lo zar Nicola e William Churchill), ecco che il tatuaggio assunse un connotato diverso, trasformandosi in un vezzo estetico.
Nella Germania nazista, ritornarono i tatuaggi forzati nei campi di sterminio, dove ai prigionieri venivano scritti su un braccio il nome e il numero di matricola.
Negli anni ’50 tra le subculture giovanili americane il tattoo riscosse un grande successo. Negli anni ’60/’70/’80 fu un segno di ribellione e contestazione giovanile al quale hippies, bikers e Punk fecero ampio ricorso.
Nei decenni successivi è divenuto un mezzo per distinguersi, un segno unico o se vogliamo una leziosità .
Oggi la tipologia dei disegni varia da zona a zona, così come la loro funzione simbolica. Ma, mentre il tattoo si è diffuso in tutto il mondo urbanizzato cosiddetto evoluto, in taluni paesi viene vietato perché rimanda al retaggio di tradizioni primitive.
La scelta degli stili è ampia: old school, new school, realistico, tribale, biomeccanico, giapponese, lettering, …
La letteratura dedicata attesta che il tatuaggio viene effettuato soprattutto sul corpo e in misura minore sul viso. A parte una minoranza di occidentali che riportano tatuaggi facciali, l’eccezione è rappresentata dagli uomini Maori (per i quali i tattoo rappresentano l’unicità e il carattere del soggetto e si adattano alla sua fisionomia), su labbra e mento delle loro donne (come espressioni di tradizione famigliare) e delle Ainu del Giappone del Nord.
Tatuaggi come identificazione dei gruppi criminali Il Giappone vanta una lunga tradizione del tattoo, la cui pratica risale a circa cinque secoli avanti Cristo. Se nel XIII assumeva il ruolo di arte raffinata, nel 1870 anno veniva messo al bando dall’Imperatore. Sebbene sia tornato ad essere legale dal 1945, oggi nel paese del Sol Levante non è visto di buon occhio tant’è che vige il divieto di ingresso e permanenza in luoghi pubblici (come piscine e saune) alle persone tatuate, giapponesi o straniere che siano.
Questo trova riscontro nel fatto che i membri della Yakuza sono grandi estimatori di questa pratica. Nessun gruppo criminale al mondo è più strettamente identificato con i tatuaggi, che in questo caso sono molto grandi e riportano temi iconografici personali ed inimitabili.
Un’altra organizzazione criminale che si distingue per l’utilizzo del tatto è la Mara Salvatrucha (o MS-13). Originatasi a Los Angeles, si è successivamente diffusa in altre aree degli Stati Uniti per diffondersi in Canada, Messico, Nord dell'America centrale (Guatemala, El Salvador, Honduras), Spagna e a quanto sembra anche in Italia.
Meritevoli di spazio anche i tattoo dell’ex area sovietica. Secondo le stime del criminologo russo Arkady G. Bronnikov, tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, su 35 milioni di detenuti nelle carceri dell’ex Unione sovietica l’85% era tatuato. I vory (letteralmente “ladri nella legge”) tatuavano sul corpo la loro personale storia criminale. Nel 1985 il tatto cessava di essere un codice esclusivo della criminalità. Lo storico antropologo delle subculture criminali russe, Vitaly Abramkin, ha raccolto testimonianze che avvalorano l’abbandono di questa pratica da parte dei criminali professionali contemporanei, i quali lo considerano un impedimento all’espletamento delle loro attività.
Bibliografia
Marco Aime (Antropologo culturale) per Enciclopedia Treccani
A. Serra, Il tatuaggio. Storia e interpretazione di un linguaggio del corpo, Bologna, Pendragon, 1995
Rufus C. Camphausen, La tribù del tatuaggio, Como, Lyra libri 1999
Sitografia
http://www.huffingtonpost.it/2014/09/25/arkady-bronnikov-tatuaggi-russi_n_5880572.html