Keith Haring
Aggiornamento: 26 ott 2020
Per alcuni, l’anima colta del graffitismo. Per altri, l’epigono di Andy Warhol. Innegabilmente, una delle figure più significative dell’arte americana degli anni Ottanta.
«Mi è sempre più chiaro che l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare.» Keith Haring.
Uno degli artisti più copiati, imitati e riprodotti di sempre, conosciuto in tutto il mondo per il suo stile unico e personale. Ma chi era questo ragazzo dai capelli ricci e gli occhialini rotondi che disegnava colorati omini in movimento?
Nato in Pennsylvania nel 1958, dopo il liceo Haring si trasferì a Pittsburg dove frequentò l’Ivy School of Professional Art. Lasciò la scuola, a suo parere dall’atmosfera artistica eccessivamente circoscritta, e iniziò a viaggiare.
Nel 1978 approdò a New York e si iscrisse alla School of Visual Art. Nella Grande Mela coltivò interessi eterogenei. Si dedicò allo studio dell’arte e si occupò di semiotica e antropologia culturale, nutrendo particolare interesse per i geroglifici egizi e le scritture delle civiltà precolombiane. Oltre all’ambiente accademico, frequentò musicisti, artisti di teatro e di strada, entrando a fare parte di una comunità alternativa impregnata di grande fermento creativo. Il clima libero e promiscuo della New York di quegli anni, fatto di feste, party, vernissage e una vita notturna piuttosto vivace, gli consentì di conoscere personaggi del calibro di Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat, di prendere coscienza della sua omosessualità e di “varcare molti limiti” – come lui stesso dichiarò in seguito.
L’affermazione dell’ideologia della strada che si consolidava in quel periodo lo portò ad avvicinarsi al graffitismo. Il suo percorso artistico iniziò nelle stazioni e nei sotterranei delle metropolitane, e non fu un caso.
Haring credeva fermamente nella democratizzazione dell’arte: l’arte che usciva dalle gallerie, fruita in forma gratuita, che non era solo per la gente che “capiva” l’arte ma per tutti. Trasformò l’ambiente urbano, brutto per definizione – quello delle fabbriche abbandonate, dei corridoi della metro, delle case in degrado – in un grande album da disegno.
Le sue opere di strada e i lavori esposti in vari spazi alternativi non passarono inosservati. Nel 1982 inaugurò la sua prima mostra personale in una galleria d’arte di New York. Da quel momento il suo successo fu rapidissimo – anche grazie agli agganci che intrecciò, perché fu un abile promotore di se stesso – e si estese al di là dei confini americani. Partecipò alla Biennale di San Paolo, di Venezia, di Parigi e a varie esposizioni in Italia (presso l’Emporio Fiorucci e in diverse gallerie d’arte).
Sulla scia di Warhol e della sua Factory, nel 1986 aprì il Pop Shop a Soho e l’anno successivo a Tokyo. Attraverso la vendita di t-shirt, giocattoli, gadget e poster, Haring diffuse la riproducibilità della sua arte – il negozio non fu che il prolungamento delle sue opere nell’ambiente urbano.
Haring entrò sì nelle gallerie d’arte ma anche in oggetti ad uso quotidiano alla portata di tutti.
Sebbene la sua priorità fosse quella di divulgare messaggi di impegno sociale – significativo il fatto che devolvette i proventi del Pop shop a scopi benefici –, quello spazio gli diede un grande riscontro economico e consacrò la sua notorietà nel mondo intero.
Nel 1988 gli venne diagnosticata l’AIDS. Da allora divenne un attivista promuovendo campagne per sensibilizzare i giovani e istituendo una fondazione, la Keith Haring Foundation, con lo scopo di finanziare le organizzazione che combattevano (e che combattono, perché esiste a tutt’ora) la malattia. Malgrado il virus, non smise di lavorare e di girare il mondo.
«La malattia rende semplicemente molto migliore tutto ciò che succede adesso perché non si sa mai quando stai facendo una cosa per l’ultima volta. Così vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo», rispose quando gli fu domandato in che modo convivesse con il virus.
Haring amò incondizionatamente l’Italia. A Pisa, realizzò Tuttomondo, un murales colorato e gioioso che definì il suo lavoro migliore (dove la sua anima graffitara è però meno evidente), un “affresco della vita” in cui uomini e animali condividono lo spazio.
Nell'immagine, Tuttomondo, sulla parete posteriore del convento della chiesa di S. Antonio Abate di Pisa
Keith Haring morì nel 1990, a 31 anni.
Il linguaggio di Haring Haring inventò un nuovo linguaggio urbano, fatto di sagome – che trassero ispirazione da geroglifici, pittogrammi giapponesi, maya e indios – caratterizzate da un segno nero continuo. Quel tratto deciso proveniva dalla vicinanza con i graffitisti che disegnavano con lo spray. E qui occorre fare un distinguo: graffitismo e street art (del quale fu uno dei padri) non sono la stessa cosa.
I graffiti esistono da sempre, si tratta di un fenomeno antropologico. La bomboletta spray è lo strumento d’elezione di quelli urbani contemporanei, a partire dagli anni ’70. Per sommi capi si può dire che mentre il graffito ha lo scopo di provocare (o trasgredire) e si esplica in un tratto grafico caratteristico, spesso basato su disegni che compongono scritte, la street art si propone invece di abbellire e si avvale di strumenti diversi come pennelli, mascherine, sagome e rulli.
Detto questo, torniamo ad Haring. I simboli che utilizzò nelle sue opere costituirono le icone di un nuovo Esperanto artistico ovvero un linguaggio “globale”, in cui i suoi omini erano figure senza volto, senza etnia, che incarnavano l’uomo inteso come la molteplicità degli uomini e i suoi valori. Sistemando le stesse immagini in configurazioni differenti, raccontò storie diverse, sempre intrise però delle sue idee, espressioni dell’osservatore razionale che fu. Libertà di etnia e libertà sessuale furono temi ricorrenti, come pure la perplessità nei confronti dell’eccessiva importanza attribuita al denaro e ai mezzi televisivi – si ricordi il bambino legato a un televisore da un cordone ombelicale, ad esempio – e la minaccia del nucleare.
Indubbiamente ebbe impulsi decisivi dalla cultura pop, anche se dalla Pop Art non riprese i temi della comunicazione commerciale e del consumismo. Pur essendosi confrontato con i pittori del passato, secondo la maggior parte dei critici la più grande influenza sulla sua coscienza artistica fu esercitata da Warhol, Picasso e Walt Disney (da piccolo, il padre gli faceva ricopiare i personaggi dei cartoons) – anche se le sue opere non furono certo intrise dell’ingenuità del cartone animato.
Con Andy Warhol condivise una grande amicizia. Ma se per Warhol «guadagnare denaro è arte e fare affari è l’arte per eccellenza», per Haring l’arte fu uno strumento per divulgare i suoi messaggi.
Haring dimostrò che le sue opere avevano un impatto tangibile tra le persone, le colpiva offrendo loro delle finestre sull’immaginario e invadendo le loro coscienze – l’omino goffo che si trascina carponi, ad esempio, era un monito nei confronti della fragilità umana (oltre che l’espressione di ambiguità sessuale).
Negli ultimi tempi il suo stile variò: i messaggi iconografici divennero meno immediati e di lettura più complessa. Dopo che gli fu diagnosticata la malattia e in seguito alla morte dell’amico Jean-Michel Basquiat, le sue opere iniziarono a presentare un’iconografia diversa, fatta di draghi che divoravano croci, serpenti, scheletri e mostri meccanici.
Cosa ci ha lasciato Keith Haring? Innanzitutto le sue opere – che si possono leggere a più livelli, da quello superficiale ad uno più impegnato. Vari messaggi: di tolleranza, speranza, amore e ottimismo. E una riflessione politica – contro il razzismo, l’oppressione e la discriminazione.
Haring è riuscito nell’intento di introdurre la sua arte in ogni parte della vita, nell’ambiente urbano, in scuole e musei, nelle opere pubbliche che ha realizzato in molti paesi del mondo facendo spesso beneficenza per ospedali, centri diurni per bambini e orfanatrofi… forse perché I bambini sanno qualcosa che la maggior parte della gente ha dimenticato.
Contro il razzismo.
Contro l’ignoranza e il silenzio.
Bibliografia
Cecchi Roberta, Castellani Piergiorgio, Keith Haring a Pisa, Pisa, Edizioni ETS, 2003
Gruen John, Keith Haring, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2007
Gruen Julia, Mercurio Gianni, Panepinto Mirella, Keith Haring, Venezia, Electa, 2001
Sitografia
http://www.inkorsivo.com/arte/street-art-graffitismo-partiamo-dalle-basi/
http://cultura.biografieonline.it/murales-graffiti-differenze/